mercoledì 24 ottobre 2012

Grandi speranze

Per la prima volta ieri mi sono sentita una vera migrante, ho realizzato di provenire da un paese che è indietro. Ero nella sala professori, a Ecouen. Nella scuola media Bullant, a una ventina di chilometri da Parigi, i docenti sono mediamente molto giovani. Vincent, il professore di latino, di colore, ha la mia età. Ha un contratto a tempo determinato per insegnare latino (e qualche rudimento di greco) ai ginnasiali, per un totale di nove ore alla settimana. Si è laureato come me l'anno scorso e a marzo proverà il concorso per diventare professore agregé. Questo contratto lo aiuta a mantenersi economicamente durante la preparazione del concorso. Se dovesse vincerlo insegnerà quindici ore alla settimana. Il suo salario nei primi due anni sarà di 1890 euro al mese, successivamente di 2032 e man mano sempre più alto fino ad arrivare ad un massimo di 3700 euro netti. L'anno scorso i posti banditi a concorso erano 80, quest'anno il governo Hollande ha aumentato i posti per la classe di latino e greco a 120.
Mi capita spesso che i professori mi chiedano com'è la situazione della scuola in Italia. Mi vergogno a dire che il concorso non viene bandito da più di dieci anni e che adesso il dibattito sulla scuola è incentrato sull'aumento dell'orario di lavoro dei docenti a cui non seguirebbe un aumento di salario. Dibattito per giunta molto sterile visto che si polarizza tra gli insegnanti che si sentono vittime del sistema e tutti gli altri (o quasi) che trovano giusto questo "provvedimento anti-crisi".

Io mi sento alquanto spaesata. Quasi mi vien voglia di presentarmi al concorso per l'insegnamento dell'italiano in Francia. Potrei addirittura scegliere tra due classi di concorso, il CAPES e l'agrégation. Il primo è un concorso più incentrato sulla lingua. Se lo vinci, insegni diciotto ore alla settimana e guadagni qualche centinaia di euro in meno rispetto agli agregé. L'esame di agrégation è più letterario, comprende una prova di latino e la redazione di un saggio in francese su temi di letteratura italiana.
Sarebbe un'ingiustizia. Io non voglio restare in Francia per tutta la vita, voglio insegnare nella scuola italiana, dove sono stata formata e che apprezzo maggiormente. Voglio poter insegnare nella mia lingua e non una lingua straniera. Sarò pure schizzinosa, ma a 24 anni non ancora compiuti posso permettermi di avere dei desideri, delle aspettative. Credo d'altronde che tutti gli studenti, che siano italiani, francesi o peruviani, abbiano il diritto di essere educati al meglio, di poter avere professori giovani e motivati, che entrino nella scuola quando non sono ancora troppo disillusi e stufi. Quando il posto fisso per loro non è affatto un traguardo ma un punto di partenza.

L'insegnamento è un'esperienza straordinaria. Quando il treno mi riporta dalla banlieue alla metropoli mi sento ricchissima, più di qualsiasi miliardario. Nei venti minuti del tragitto ripenso alle ore in classe, ai visi e ai nomi degli alunni, alle loro domande buffe e ai loro occhi attenti. Appena torno a casa, nella mia cameretta in soffitta al sesto piano senza ascensore, accendo subito il computer e comincio ad organizzare le lezioni per il giorno dopo. Perché è vero, l'Italia non è un paese civile, ma non c'è tempo per amareggiarsi. C'è una generazione che sta nascendo e che ha il diritto di avere tutte le nostre migliori energie.




sabato 6 ottobre 2012

Una scuola vivace


Da oggi inauguro su questo blog una sezione dedicata alla mia esperienza da assistente di lingua italiana in una scuola media di Ecouen e in un liceo di Sarcelles, nella periferia parigina. 


La stazione RER di Gages- Sarcelles (foto da Wikipedia)

Quando arrivi alla stazione di Gages-Sarcelles le scale mobili non funzionano e la gente si accalca sui gradini. All’esterno, ti ritrovi in una non-piazza con qualche autobus che aspetta i suoi passeggeri, un piccolo supermercato che sparisce tra l’asfalto. Neanche un albero. È lì che ho visto un topo che sgambettava tranquillamente verso il suo rifugio.
Se il grigio avvolge l’arrivo a Sarcelles,  è in antitesi a quel grigio che il liceo Jean-Jacques Rousseau è stato costruito. I corridoi sono colorati e ognuno dei tre edifici che compongono il complesso ha un colore dominante. Arancione è quello in cui si studiano le lingue. Le aule sono belle, la professoressa d’italiano ha a sua disponizione un computer, un proiettore, una lavagna grande, uno stereo. Le pareti sono decorate con cartoline dall’Italia.
Gli studenti aspettano l’arrivo del loro docente disposti in fila per due davanti alle classi. All’entrata in aula è uno scrosciare di buongiorno, un chiacchiericcio animato. Non sono mai calmi gli alunni della città grigia. Nessuno si accascia sul banco. C’è chi non può smettere di raccontare le ultime news al compagno di banco, c’è chi fissa attento le pupille sul professore che spiega, tutti sono in azione. Non hanno paura di interrompere il docente per un chiarimento, per scherzare sui compiti, per prendere in giro il compagno che ha appena fatto un intervento. L’energia in circolo è notevole, non ci si annoia mai.
Per me è divertentissimo osservare. I visi degli studenti sono molto diversi. Intravedo nasi africani e nasi adunchi. Occhi a mandorla color nocciola e occhi tondi e azzurri. Le altezze e le corporature sono altrettanto differenti. C’è la studentessa che si è appena trasferita con i suoi genitori dal Brasile, l’immigrato italiano di terza generazione, il nipote dell’algerino arrivato in Francia all’indomani della decolonizzazione. E’ soprattutto questa categoria la più numerosa. Il liceo Jean-Jacques Rousseau nasce infatti proprio nel ’65 per accogliere  la fiumana di nuovi studenti figli dei nord-africani conquistatori dell’indipedenza.
"Perché in una banlieue soprannominata “La piccola Palestina” gli studenti  dovrebbero volere imparare l’italiano?" è la domanda ricorrente di chi ha saputo che lavoro a Sarcelles, nel 95, la zona periferica di Parigi  a più alto rischio di conflitto sociale.  Eppure il liceo di Sarcelles è uno dei pochissimi licei della provincia di Versailles ad offrire il corso di studi Esa.Bac. (esame di stato – baccalauréat). Gli alunni di questa sezione speciale studiano la storia e la geografia in italiano e fanno più ore di lingua. L’esame finale permetterà loro di conseguire il doppio diploma franco-italiano. Non sono i figli dei benestanti parigini a scegliere questo corso, ma i nipoti e i figli degli immigrati. Perché Roma è bella, perché vogliono lavorare nel commercio, perché sono curiosi di imparare tante lingue e di conoscere una cultura diversa.
Dalla prossima settimana si comincia. Dovrò proporre degli approfondimenti, cercare di appassionare gli studenti alla cultura italiana. Incitarli ad espirmersi oralmente il più possibile, correggere la pronuncia. Riuscirò ad essere all’altezza dei loro occhi curiosi? A soddisfare i loro interessi, ad arricchire e aggiornare la loro visione dell’Italia?
Quello che è certo è che il grigio della città dopo qualche ora passato nella scuola viene dimenticato. Sarcelles diventa la città dei colori che questi studenti della nuova Europa sprigionano.

sabato 7 aprile 2012

Le particelle elementari

Le particelle elementari di Michel Houellebcq è un libro che ho terminato di leggere ormai un paio di settimane fa ma a cui continuo a pensare periodicamente. E' un romanzo che ha fatto molto parlare di sé, di volta in volta calunniato e osannato, tradotto in 25 lingue e che ormai ha fatto il suo ingresso anche negli studi accademici: figura già nei titoli delle tesi di laurea e di dottorato. Io l'ho letto molto piacevolmente, apprezzandone soprattutto lo stile. E' una storia da raccontare, le vicende si susseguono a ritmo incalzante, i personaggi sono forti e reali, dai contorni precisi e ben definiti. Uno di quei romanzi di cui è facile raccontare la trama: la storia di due fratelli da parte di madre, dalla loro nascita fino alla fine della loro vita, delle loro avventure sentimentali e professionali intrecciate assieme alle vicende storico-sociali.  In questo si avvicina alla tradizione americana e alla narrativa orale, tanto da sembrare quasi una parabola. E arriviamo al punto: i contenuti del libro. Sì, esiste un insegnamento "morale": mi è sembrato che l'autore volesse rendere partecipe il lettore di una sua visione particolare del mondo. Il romanzo ha un messaggio. Si potrebbero infatti facilmente sintetizzare i valori che esso comunica tanto che in cinque minuti, libro alla mano, si potrebbe scriverne un decalogo, il manifesto del pensiero dell'illustrissimo monsieur Houellebecq. In questo l'ho trovato davvero insopportabile. E' frutto di un'operazione commerciale bella e buona. E il fatto che si rivolga ad un pubblico mediamente colto e radical-chic, non lo rende superiore ad altre operazioni editoriali rivolte ad un pubblico "popolare". Creare scalpore, dividere il pubblico in buoni e cattivi, in conservatori e progressisti: questo sembra essere l'obiettivo. Perché in questa maniera è più semplice far parlare di sé, costruire un passaparola, creare un territorio neutro in cui gli attori possano vestire i panni dei rossi o dei neri e giocare a ping pong.
Malgrado tutto, un elemento interessante c'è. Finalmente anche la narrativa europea ritorna ad aprirsi alla realtà, alla società, alle scienze. Ricomincia ad interessarsi alle problematiche etiche del nostro tempo. Amerei però che lo facesse in maniera creativa, interpretando i temi in maniera polisemica e multiprospettica. Che aprisse alle possibilità anziché appiattirle in un sistema binario. Lo 0-1 regge il sistema informatico, cerchiamo di restituire alla letteratura l'infinità dei possibili, simboleggiata dalla bellezza dell'alfabeto, struttura dolce e flessibile, capace di rinnovarsi nelle epoche storiche e di ripresentarsi come strumento sempre nuovo e aggiornato per il racconto del mondo.

domenica 18 marzo 2012

ancora Colette

Henry de Montherlant a Colette:

Vous avez ce contact criant avec la vie, avec l'humain que neuf sur dix de nos contemporains, ces "grands intellectuels", n'ont-pas - et qu'ils n'aiment pas chez vous.


mercoledì 7 marzo 2012

Il tempo della rilettura

Ho letto La Fin de Chéri  di Colette per la prima volta nell'autunno del 2007. L'ho riletto in francese la scorsa primavera a Bologna. Poi a Strasburgo ad ottobre. Venerdì in biblioteca e - infine - ieri mattina nella mia camera. Ho anche visto il film che ne ha tratto Stephen Frears un paio di volte: al cinema e poi su Sky.
La rilettura è per me una pratica abbastanza recente. Di solito la mia lettura è vorace, rapida, tutta intenta a seguire la storia, le pagine scorrono veloci perché c'è sempre un libro da leggere dopo che mi aspetta e che mi mette fretta. E soprattutto c'è la fine da scoprire, allora faccio il conto alla rovescia delle pagine che mi mancano e do una sbirciatina all'ultima pagina, giusto per far capire all'autore che sono io ad avere in pugno la situazione, mica mi frega, mica mi lascia sola lì nel bel mezzo delle pagine senza che io possa sapere come va a finire.
Sì, il mio tempo di lettura è una corsa contro il il tempo della scrittura.
E poi succede che devo rileggere La Fin de Chéri e mi innamoro della rilettura.
Il mio professore di Letteratura Francese diceva che per dire di aver letto un libro, dobbiamo leggerlo almeno tre volte. Mah, mi ero detta io, non penso avrò mai il coraggio di rileggere I fratelli Karamazov o Guerra e Pace. Però, pensavo mentre lo ascoltavo, effettivamente mio fratello ha letto due volte  Il signore degli anelli a undici anni... forse allora non è del tutto assurdo e insensato ciò che a dodici anni mi aveva lasciata basita.
Così, ho riletto Polissena del Porcello di Bianca Pitzorno, libro storico della mia infanzia. Pensavo di essermi messa in pace la coscienza, avevo dimostrato che anche io se voglio sono capace di interrompere la guerra al tempo della scrittura. In seguito e durante questi anni di università mi è capitato di rileggere molti libri più volte, per un esame o per un saggio da scrivere o per una recensione da fare.
Questa rilettura però è stata tutta un'altra storia.
Quando ho letto per la prima volta La Fin de Chéri mi sono detta che era una storia d'amore un po' strana, con pochi personaggi, interessante. Di certo non un capolavoro. La seconda volta ho chiuso il libro pensando che era una storia molto innovativa e da consigliare. La terza che lo stile era molto ricercato e non mi venissero a dire che Colette era la Fabio Volo d'altri tempi. Alla quarta lettura ho pensato che era geniale, con Freud di mezzo, le follie degli anni Venti, le donne che diventano affariste, le tragedie di Racine ribaltate, i dialoghi perfetti. Alla quinta ho scoperto una miriade di personaggi che prima erano rimasti silenziosi, mi sono accorta che ci sono tante scene collettive di pranzi, feste e cene che ad una lettura veloce scompaiono. Che dalla descrizione dei pasti si potrebbe trarre un ricettario raffinato e molto goloso. Ho scoperto che il protagonista vaga per la città, tra incontri e momenti di epifania da far impallidire Joyce e tutti i suoi adulatori.
Allora ho capito perché molti dei miei amici intellettuali quando sanno che faccio la tesi su Chéri storcono il naso. Per arrivare alla bellezza di un testo, bisogna liberarsi della polvere dei luoghi comuni che sul testo si sono accumulati ("ma Colette chi? quella che faceva i romanzetti su Claudine che va a scuola?" "Quella che nei suoi libri parla di sesso e di relazioni lesbiche?" "Ah sì, Chéri.. quel libro sulla storia d'amore con la vecchia" e via dicendo). Ma non basta avere uno sguardo fresco sul testo, alle volte serve anche una guida. Serve discutere sul testo, serve leggerlo insieme ad altri. Ecco svelato il segreto di queste meravigliose riletture: sono state riletture condivise e partecipate. La prima volta l'ho letto in solitudine, assorbita da chissà quali altri pensieri. L'ho chiuso e l'ho riposto  nella mia libreria, non ricordo di averne parlato con qualcuno. La seconda volta l'ho riletto perché mi era capitato di parlarne a pranzo con amici e mi era ritornata la curiosità. La terza perché ho seguito un corso su Colette e il mio geniale professore di Letteratura Comparata l'ha illuminato e arricchito. L'ho letto con gli altri  miei compagni del corso e ne abbiamo parlato in mensa o la sera passeggiando sul lungofiume. E ora lo rileggo in compagnia di un lettore immaginario, con l'intento di sedurlo come io a mia volta sono stata sedotta dalle letture di altri.
Insomma, se siete arrivati alla fine di questo papiro vuol dire che è arrivato il momento di andare in libreria o in biblioteca, di cercare lo scaffale Adelphi e di fare vostro questo piccolo tesoro scritto nel 1926.
E in me si fa più ferma la convinzione che condividere storie, letture, pellicole viste, riletture è la migliore forma di resistenza e il migliore metodo di apprendimento.

domenica 26 febbraio 2012

Contro l'accademia - parte seconda


In your modesty you seem to consider that writers are of different blood and bone from yourselves; that they know more of Mrs. Brown that you do. Never was there a more fatal mistake. It is this division between reader and writer, this humility on your part, these professional airs and graces on ours, that corrupt and emasculate the books which should be the healthy offspring of a close and equal alliance between us.

Virginia Woolf ci ricorda in questo meraviglioso saggio dal titolo Mr Bennet and Mrs Brown che, scrittori o lettori, partecipiamo tutti allo stesso processo di osservazione e creazione del mondo.

Gli studiosi spesso lo dimenticano e si fanno assalire da un terribile senso di inferiorità che li porta a scomporre, analizzare e pietrificare ciò che invece ha bisogno di essere re-immaginato e re-raccontato. In questo modo, all'ascoltatore o al lettore la letteratura non potrà far altro che sembrare strana e anche un po' superflua.

Se vogliamo essere insegnanti o se, più semplicemente, abbiamo l'intenzione di presentare le nostre letture ad altri, dovremmo innanzitutto abbandonare ogni forma di complesso e di reverenza. E sentirci capaci anche noi di immaginare e scrivere di una qualunque Mrs Brown incontrata sul treno, sul tram, sull'autobus, sull'aereo. Forse allora riusciremo a vedere e a sentire più che a capire. Apprezzeremo e trasmetteremo l'importanza del chiedersi come vedono o sentono gli altri e come vedevano e sentivano quelli che c'erano prima di noi.

O almeno credo

?__?

venerdì 24 febbraio 2012

Di quando, pur di non studiare, si dà la colpa a tutto il sistema

Lo devo ammettere: quando nel mio lavoro di tesi passo ad esaminare il contesto italiano vengo assalita da una sensazione di scoramento. Proprio non mi piace. La gran parte della critica italiana mi deprime e i romanzi mi sembrano simili, tutti segnati dalla pesante figura dell'inetto, dell'incapace, del personaggio che è un abbozzo di se stesso, che è una maschera. E' colpa del canone che ha tramandato autori che rispondevano a questi criteri o è la creatività degli scrittori degli anni venti ad essere stata in un certo senso monocorde? La seconda ipotesi mi sembra alquanto improbabile. Se a livello formale il romanzo italiano ha saputo fare propria la lezione del romanzo russo ed inglese introducendo tutto sommato importanti novità, è nella scelta dei temi che la noia sembra dominare incontrastata. Ma io non mi rassegno. Non posso credere che il pubblico e la critica amassero romanzi  che rappresentavano tutti la stessa parabola di inadeguatezza alla vita. La tesi sugli anni venti a cui sto lavorando certo non sarà sufficiente a fare luce su esperienze romanzesche differenti e sarò costretta a sciropparmi critica noiosa e ad analizzare inetti ed indifferenti, ma sicuramente dentro di me una convinzione è sempre più forte: a scuola (e nelle università) la letteratura si studia in maniera troppo teorica, per grandi schemi e grandi linee, nell'intento di semplificare ma con il risultato di appiattire.
Per fortuna il contesto europeo tiene alto il morale e incoraggia al proseguimento della ricerca.

O più probabilmente sono io che ho bisogno di una pausa, ma non  me la voglio concedere e quindi è colpa del romanzo italiano e blablabla

:D

sabato 18 febbraio 2012

L'anitra selvatica

Ho appena finito di leggere L'anitra selvatica di Ibsen. Scritto nel 1884 e messo in scena l'anno successivo, questo dramma sconvolse il pubblico europeo sin dalla sua uscita.

E' più giusto l'atteggiamento di Gregers che ha per missione la verità e che svela ad Hjalmar che il suo matrimonio è fondato sulla menzogna, oppure ha ragione il medico Relling  nel nutrire l'immaginazione di Hjalmar di false speranze e di alimentare la menzogna in cui egli vive?
I personaggi, così vicini al raggiungimento della felicità, si lasciano sommergere da un malessere sotterraneo e inesplicabile. Cos'è questa parola intima che diviene man mano sempre più forte ed ineluttabile?
E chi è quest'anatra selvatica che è stata strappata al mare e che vive in un armadio?
Una pièce bellissima. Un dramma misterioso e polifonico che, pur avendo la struttura del dramma borghese, riesce ad essere rivoluzionario e dirompente.
Una lettura breve e coinvolgente, che punta dritto al cuore. Assolutamente consigliata.


lunedì 23 gennaio 2012

strade


Stanotte ho sognato di essermi persa per strada, mi ritrovavo in un quartiere di Strasburgo che non avevo mai visto. Nel sogno afferravo il telefono per chiamare mio padre e chiedergli: mi vieni a prendere? Lui inseriva l'indirizzo sul navigatore e arrivava. Mi sono svegliata di colpo e mi sono detta: cacchio, altroché... qui non c'è nessuno che possa venirmi a prendere se mi perdo.

Oggi ultimo esame e prime partenze. A pranzo in mensa con un colombiano, un argentino, un serbo, chiacchierando in spagnolo, francese, inglese e italiano. Una discussione davanti a un caffé sulla sorte della teoria letteraria in Europa. Ripetizioni di geografia sud-americana. Una corsa in bici sotto la pioggia. E la sensazione che è tutto davanti a me e che ora si comincia davvero. 

Questi anni passati ad imparare strade nuove mi hanno insegnato più parole. Le strade cambieranno e mi capiterà di perdermi. Ma adesso so come chiedere qual è la strada per andare a 


Strasbourg
Einkhuizen
Paris
Lima
Bologna
Trujillo
Freiburg im Breisgau
Bari
e ancora più in là




(dedicato ai miei compagni di strada)

giovedì 12 gennaio 2012

Ecrire pour étourderie

  Per un esame di Letteratura Francofona, ho avuto la fortuna di leggere alcuni romanzi africani. Tutti degli anni Settanta, scritti all'indomani dell'indipendenza dalla Francia.
In Xala, romanzo del senegalese Sembene Ousmane, il protagonista diventa improvvisamente impotente, proprio dopo aver contratto il suo terzo matrimonio. Dilapiderà soldi ed energie per cercare la causa di questa impotenza (lo xala per l'appunto). Sono state le sue prime due moglie a lanciargli la maledizione? O i familiari della terza moglie? O il mendicante che è all'angolo della strada? O i suoi collaboratori? Per scoprirne la causa occorrerà rivolgersi alla medicina wolof e ricollegarsi all'antica cultura africana.
Il secondo romanzo, La vie et demie, è di un congolese, Sony Labou Tansi. Una vita e mezza è quella che vivono le vittime della dittatura, che non riescono a morire e continuano ad apparire ai loro compagni e rivali sulla terra. E' quello che succede a Martial che, tagliato a pezzi dal Guide Providentiel, riuscirà a generare figli anche da morto.
 Les crapauds-brousse è  un'opera di uno scrittore della Guinea, Tierno Monenémbo. Diouldé, tornato dai suoi studi in Ungheria, si ritrova presto risucchiato nel vortice del potere malato della società post-coloniale.
Ciò che ho adorato di questi libri è l'urgenza che essi comunicano. Tansi definisce il processo creativo uno "scrivere per stordimento". L'atto della scrittura non nasce da una presa di coscienza razionale, è piuttosto una spinta alla sopravvivenza, una necessità. Per non soccombere, la scrittura ha bisogno di ritornare nella foresta (la brousse del titolo di Monenénembo),  di fare ricorso alle risorse degli antichi linguaggi e delle antiche credenze (xala è una parola wolof), di ritornare all'epica e alla favola in cui la distinzione tra i vivi e i morti è flebile ed il tempo è eterno.
Qualcuno ha paragonato questa letteratura a quella di Garcia Marquez in particolare e a quella sudamericana più in generale. Forse l'Europa non ha più nulla da raccontare?