lunedì 11 marzo 2013

il regalo più bello

Un critico dovrebbe portare in dono i Nuovi versi alla Lina di Saba a un uomo abbandonato, e non per consolarlo, ma perché possa intuire che il lavoro durissimo che ci tocca in sorte è fare di un destino una figura musicale. Dovrebbe sbattere in faccia gli ultimi canti dell'Odissea ai fascisti che odiano l'immigrato, e non per educarli, ma perché possano sospettare che è gradito agli dèi solo chi sa accogliere il viandante sconosciuto, ascoltare il suo racconto, mentre per gli altri ci sarà solo la freccia impassibile di Ulisse. La nostra anima è questo: intuire e sospettare. La possibilità perenne di un'apertura. Ciò che avviene nella letteratura è il miracolo di un inchino reciproco, di uno sfiorarsi di labbra, tra l'anima e il mondo. 
(E. Trevi - Istruzioni per l'uso del lupo)

venerdì 8 febbraio 2013

perché tornerò per votare

La scuola di Sarcelles è proprio bella. Ogni aula dispone di un computer connesso ad internet e di un proiettore (oltre che dei soliti stereo e televisore), l'appello si fa elettronicamente, i banchi e le sedie sono nuovi. La biblioteca è sempre aperta, alla mensa c'è una lunga coda che viene smaltita rapidamente. Questa settimana era dedicata alla cucina internazionale, ogni giorno un menu da un paese diverso. Ieri toccava ai tedeschi e le cuoche della mensa, col cappello bavarese, distribuivano i piatti al suon di Guten Tag e Guten Appetit.
Della scuola fatiscente che ho frequentato io in fin dei conto solo fino a cinque anni fa, mi ricordo di registri che rimanevano sulla cattedra ed erano spesso oggetto di scherzi, di macchinette scassate, di film visti in venticinque davanti a uno schermo di 13 pollici, di palestre inesistenti, di sedie rotte e traballanti. (Certo, ricordo anche di muri ridipinti, di riunioni  in corridoio approfittando del ritardo del prof, di ore di sport passate a discutere di letteratura e di politica, ma questa è un'altra storia.)
A Sarcelles, dopo aver oltrepassato il cancello d'ingresso, ci si ritrova di fronte ad un grande schermo su cui vengono proiettati gli avvisi del Preside e i nomi dei docenti assenti. Gli studenti aspettano massimo cinque minuti i loro professori, e se il prof non arriva scendono subito in segreteria per comunicare l'assenza. Nessuno scampo, le regole valgono per tutti. Mi è capitato anche di assistere a delle lamentele da parte degli alunni contro un docente che non aveva comunicato la sua assenza la sera prima, costringendoli ad andare a scuola inutilmente alle 8. Il mio stupore è aumentato ancora di più quando il docente in questione, senza sentirsi minimamente intaccato nella sua autorevolezza, si è addirittura scusato dicendo loro che aveva mandato una comunicazione per e-mail a due alunni della classe. Rimproverare un docente per un ritardo o per una assenza non comunicata tempestivamente non mi sarebbe mai venuto in mente. Eppure anche io non sono mai stata un'alunna troppo educata, piuttosto incline ad una fiera ribellione pronta a rovesciarsi in insolenza.
Quanto è affascinante per me questo vigile rispetto per lo spazio pubblico, questo contratto sociale che docenti e alunni di Sarcelles hanno firmato. Credo che questo sia possibile perché gli studenti di Sarcelles, quando entrano a scuola, diventano ingranaggio e benzina di una realtà che funziona, in cui ci si può permettere di protestare per qualche minuto di ritardo perché ci si sente parte in causa, componente attiva ed indispensabile del processo. Entrando nel liceo gli alunni si sentono più confortevoli che a casa loro, a scuola hanno più spazio, un computer a testa, tanti libri a loro disposizione, un riscaldamento che funziona, un piatto pronto e ogni giorno diverso. Mi sembra anche che i docenti siano mediamente più motivati, forse perché meglio valorizzati e ricompensati. Quanto è differente dalla maniera in cui io ho vissuto la scuola.
Probabilmente gli studenti di Sarcelles lasciata la scuola pubblica avranno un'idea diversa dello Stato. Forse per loro lo Stato sarà davvero come la loro classe di liceo, una stanza luminosa ed efficiente dove imparare insieme, in cui ognuno ricopre un ruolo e il confronto non si risolve necessariamente in conflitto.
Per questo trovo assurda e ingiusta la situazione della scuola in Italia. E più cresco e più viaggio, più mi diventa insopportabile e triste sentire come la scuola venga bistrattata e messa al margine del dibattito politico italiano. Io sono stata fortunata: nonostante la decadenza dell'edificio scolastico e di alcune deludenti esperienze didattiche, ho avuto la possibilità di formarmi. Disponevo di una biblioteca casalinga molto fornita, ho avuto la fortuna di avere dei genitori interessati di cinema e di musica e che non dimenticavano mai di comprare un buon quotidiano, e i due o tre docenti appassionati e preparati che ho incontrato sono bastati a dare un'unità ed una personalità al quadro. Ma cosa succede agli studenti delle scuole italiane di periferia equivalenti a quella di Sarcelles? Mi riesce difficile immaginare delle cuoche che vivono il loro lavoro con gioia al punto di indossare strani cappelli e sbizzarrirsi con piatti sempre nuovi, degli studenti che preferiscono restare in biblioteca piuttosto che uscire da scuola, dei docenti che si precipitano in classe temendo il ritardo, che si arrovellano cercando il video più adatto su youtube, organizzando le uscite culturali più appropriate e i viaggi di scambio migliori. Che idea avranno invece gli studenti del quartiere San Paolo di Bari della loro scuola? E, di conseguenza, quale idea dello spazio pubblico introietteranno?
Secondo Andrea Camilleri gli Italiani non hanno memoria, basti pensare che sono stati capaci di eleggere un deputato fascista soltanto un anno e otto mesi dopo Piazzale Loreto. Hanno però, sempre secondo lo scrittore, il pregio di essere testardi e di sapersela cavare nei momenti di crisi. Io non riesco a dimenticarmi i corridoi bui della mia scuola, i piccioni che svolazzavano nell'aula dell'università, le biblioteche inesistenti. Proprio non ce la faccio, e la mia caparbietà vacilla. Per la prima volta quest'anno ho sentito con nitidezza che il mio paese è nella merda, fino al collo. Perché è ingiusto che in Italia i miei amici più brillanti siano disorientati e spaventati, e che in Francia invece la gran parte dei miei coetanei abbia un posto fisso e sogni di prendersi un anno sabbatico o di congedo formativo - rigorosamente pagato - per fare il giro del mondo per poi ritornare ad insegnare. Quando racconto della situazione della scuola in Italia, degli incubi delle graduatorie a scorrimento e dei concorsi fantasma, i miei colleghi mi domandano : "E che pensi di fare allora?" Io rispondo che forse ora che l'Italia eleggerà il nuovo governo qualcosa cambierà. Che qualcosa deve per forza cambiare. Perché appunto, come dice Camilleri, noi Italiani diamo il meglio nei momenti di crisi.
Gentile signor Camilleri, io voglio crederle. Per questo ho deciso di ritornare a votare per le elezioni politiche. Il biglietto mi è costato parecchio, ma molto di più mi è costato chiedere un giorno di permesso a scuola. Chi se li sentirà poi i miei alunni quando dirò loro che perderemo una giornata di lavoro insieme?
 Ho deciso di scommettere sul futuro del mio paese ancora una volta. Prenderò esempio dai miei studenti e cercherò di sentirmi anche io il granello di sabbia che fa la differenza, l'ingranaggio indispensabile di un sistema che mi ascolta. Vediamo se funziona.

mercoledì 24 ottobre 2012

Grandi speranze

Per la prima volta ieri mi sono sentita una vera migrante, ho realizzato di provenire da un paese che è indietro. Ero nella sala professori, a Ecouen. Nella scuola media Bullant, a una ventina di chilometri da Parigi, i docenti sono mediamente molto giovani. Vincent, il professore di latino, di colore, ha la mia età. Ha un contratto a tempo determinato per insegnare latino (e qualche rudimento di greco) ai ginnasiali, per un totale di nove ore alla settimana. Si è laureato come me l'anno scorso e a marzo proverà il concorso per diventare professore agregé. Questo contratto lo aiuta a mantenersi economicamente durante la preparazione del concorso. Se dovesse vincerlo insegnerà quindici ore alla settimana. Il suo salario nei primi due anni sarà di 1890 euro al mese, successivamente di 2032 e man mano sempre più alto fino ad arrivare ad un massimo di 3700 euro netti. L'anno scorso i posti banditi a concorso erano 80, quest'anno il governo Hollande ha aumentato i posti per la classe di latino e greco a 120.
Mi capita spesso che i professori mi chiedano com'è la situazione della scuola in Italia. Mi vergogno a dire che il concorso non viene bandito da più di dieci anni e che adesso il dibattito sulla scuola è incentrato sull'aumento dell'orario di lavoro dei docenti a cui non seguirebbe un aumento di salario. Dibattito per giunta molto sterile visto che si polarizza tra gli insegnanti che si sentono vittime del sistema e tutti gli altri (o quasi) che trovano giusto questo "provvedimento anti-crisi".

Io mi sento alquanto spaesata. Quasi mi vien voglia di presentarmi al concorso per l'insegnamento dell'italiano in Francia. Potrei addirittura scegliere tra due classi di concorso, il CAPES e l'agrégation. Il primo è un concorso più incentrato sulla lingua. Se lo vinci, insegni diciotto ore alla settimana e guadagni qualche centinaia di euro in meno rispetto agli agregé. L'esame di agrégation è più letterario, comprende una prova di latino e la redazione di un saggio in francese su temi di letteratura italiana.
Sarebbe un'ingiustizia. Io non voglio restare in Francia per tutta la vita, voglio insegnare nella scuola italiana, dove sono stata formata e che apprezzo maggiormente. Voglio poter insegnare nella mia lingua e non una lingua straniera. Sarò pure schizzinosa, ma a 24 anni non ancora compiuti posso permettermi di avere dei desideri, delle aspettative. Credo d'altronde che tutti gli studenti, che siano italiani, francesi o peruviani, abbiano il diritto di essere educati al meglio, di poter avere professori giovani e motivati, che entrino nella scuola quando non sono ancora troppo disillusi e stufi. Quando il posto fisso per loro non è affatto un traguardo ma un punto di partenza.

L'insegnamento è un'esperienza straordinaria. Quando il treno mi riporta dalla banlieue alla metropoli mi sento ricchissima, più di qualsiasi miliardario. Nei venti minuti del tragitto ripenso alle ore in classe, ai visi e ai nomi degli alunni, alle loro domande buffe e ai loro occhi attenti. Appena torno a casa, nella mia cameretta in soffitta al sesto piano senza ascensore, accendo subito il computer e comincio ad organizzare le lezioni per il giorno dopo. Perché è vero, l'Italia non è un paese civile, ma non c'è tempo per amareggiarsi. C'è una generazione che sta nascendo e che ha il diritto di avere tutte le nostre migliori energie.




sabato 6 ottobre 2012

Una scuola vivace


Da oggi inauguro su questo blog una sezione dedicata alla mia esperienza da assistente di lingua italiana in una scuola media di Ecouen e in un liceo di Sarcelles, nella periferia parigina. 


La stazione RER di Gages- Sarcelles (foto da Wikipedia)

Quando arrivi alla stazione di Gages-Sarcelles le scale mobili non funzionano e la gente si accalca sui gradini. All’esterno, ti ritrovi in una non-piazza con qualche autobus che aspetta i suoi passeggeri, un piccolo supermercato che sparisce tra l’asfalto. Neanche un albero. È lì che ho visto un topo che sgambettava tranquillamente verso il suo rifugio.
Se il grigio avvolge l’arrivo a Sarcelles,  è in antitesi a quel grigio che il liceo Jean-Jacques Rousseau è stato costruito. I corridoi sono colorati e ognuno dei tre edifici che compongono il complesso ha un colore dominante. Arancione è quello in cui si studiano le lingue. Le aule sono belle, la professoressa d’italiano ha a sua disponizione un computer, un proiettore, una lavagna grande, uno stereo. Le pareti sono decorate con cartoline dall’Italia.
Gli studenti aspettano l’arrivo del loro docente disposti in fila per due davanti alle classi. All’entrata in aula è uno scrosciare di buongiorno, un chiacchiericcio animato. Non sono mai calmi gli alunni della città grigia. Nessuno si accascia sul banco. C’è chi non può smettere di raccontare le ultime news al compagno di banco, c’è chi fissa attento le pupille sul professore che spiega, tutti sono in azione. Non hanno paura di interrompere il docente per un chiarimento, per scherzare sui compiti, per prendere in giro il compagno che ha appena fatto un intervento. L’energia in circolo è notevole, non ci si annoia mai.
Per me è divertentissimo osservare. I visi degli studenti sono molto diversi. Intravedo nasi africani e nasi adunchi. Occhi a mandorla color nocciola e occhi tondi e azzurri. Le altezze e le corporature sono altrettanto differenti. C’è la studentessa che si è appena trasferita con i suoi genitori dal Brasile, l’immigrato italiano di terza generazione, il nipote dell’algerino arrivato in Francia all’indomani della decolonizzazione. E’ soprattutto questa categoria la più numerosa. Il liceo Jean-Jacques Rousseau nasce infatti proprio nel ’65 per accogliere  la fiumana di nuovi studenti figli dei nord-africani conquistatori dell’indipedenza.
"Perché in una banlieue soprannominata “La piccola Palestina” gli studenti  dovrebbero volere imparare l’italiano?" è la domanda ricorrente di chi ha saputo che lavoro a Sarcelles, nel 95, la zona periferica di Parigi  a più alto rischio di conflitto sociale.  Eppure il liceo di Sarcelles è uno dei pochissimi licei della provincia di Versailles ad offrire il corso di studi Esa.Bac. (esame di stato – baccalauréat). Gli alunni di questa sezione speciale studiano la storia e la geografia in italiano e fanno più ore di lingua. L’esame finale permetterà loro di conseguire il doppio diploma franco-italiano. Non sono i figli dei benestanti parigini a scegliere questo corso, ma i nipoti e i figli degli immigrati. Perché Roma è bella, perché vogliono lavorare nel commercio, perché sono curiosi di imparare tante lingue e di conoscere una cultura diversa.
Dalla prossima settimana si comincia. Dovrò proporre degli approfondimenti, cercare di appassionare gli studenti alla cultura italiana. Incitarli ad espirmersi oralmente il più possibile, correggere la pronuncia. Riuscirò ad essere all’altezza dei loro occhi curiosi? A soddisfare i loro interessi, ad arricchire e aggiornare la loro visione dell’Italia?
Quello che è certo è che il grigio della città dopo qualche ora passato nella scuola viene dimenticato. Sarcelles diventa la città dei colori che questi studenti della nuova Europa sprigionano.

sabato 7 aprile 2012

Le particelle elementari

Le particelle elementari di Michel Houellebcq è un libro che ho terminato di leggere ormai un paio di settimane fa ma a cui continuo a pensare periodicamente. E' un romanzo che ha fatto molto parlare di sé, di volta in volta calunniato e osannato, tradotto in 25 lingue e che ormai ha fatto il suo ingresso anche negli studi accademici: figura già nei titoli delle tesi di laurea e di dottorato. Io l'ho letto molto piacevolmente, apprezzandone soprattutto lo stile. E' una storia da raccontare, le vicende si susseguono a ritmo incalzante, i personaggi sono forti e reali, dai contorni precisi e ben definiti. Uno di quei romanzi di cui è facile raccontare la trama: la storia di due fratelli da parte di madre, dalla loro nascita fino alla fine della loro vita, delle loro avventure sentimentali e professionali intrecciate assieme alle vicende storico-sociali.  In questo si avvicina alla tradizione americana e alla narrativa orale, tanto da sembrare quasi una parabola. E arriviamo al punto: i contenuti del libro. Sì, esiste un insegnamento "morale": mi è sembrato che l'autore volesse rendere partecipe il lettore di una sua visione particolare del mondo. Il romanzo ha un messaggio. Si potrebbero infatti facilmente sintetizzare i valori che esso comunica tanto che in cinque minuti, libro alla mano, si potrebbe scriverne un decalogo, il manifesto del pensiero dell'illustrissimo monsieur Houellebecq. In questo l'ho trovato davvero insopportabile. E' frutto di un'operazione commerciale bella e buona. E il fatto che si rivolga ad un pubblico mediamente colto e radical-chic, non lo rende superiore ad altre operazioni editoriali rivolte ad un pubblico "popolare". Creare scalpore, dividere il pubblico in buoni e cattivi, in conservatori e progressisti: questo sembra essere l'obiettivo. Perché in questa maniera è più semplice far parlare di sé, costruire un passaparola, creare un territorio neutro in cui gli attori possano vestire i panni dei rossi o dei neri e giocare a ping pong.
Malgrado tutto, un elemento interessante c'è. Finalmente anche la narrativa europea ritorna ad aprirsi alla realtà, alla società, alle scienze. Ricomincia ad interessarsi alle problematiche etiche del nostro tempo. Amerei però che lo facesse in maniera creativa, interpretando i temi in maniera polisemica e multiprospettica. Che aprisse alle possibilità anziché appiattirle in un sistema binario. Lo 0-1 regge il sistema informatico, cerchiamo di restituire alla letteratura l'infinità dei possibili, simboleggiata dalla bellezza dell'alfabeto, struttura dolce e flessibile, capace di rinnovarsi nelle epoche storiche e di ripresentarsi come strumento sempre nuovo e aggiornato per il racconto del mondo.

domenica 18 marzo 2012

ancora Colette

Henry de Montherlant a Colette:

Vous avez ce contact criant avec la vie, avec l'humain que neuf sur dix de nos contemporains, ces "grands intellectuels", n'ont-pas - et qu'ils n'aiment pas chez vous.


mercoledì 7 marzo 2012

Il tempo della rilettura

Ho letto La Fin de Chéri  di Colette per la prima volta nell'autunno del 2007. L'ho riletto in francese la scorsa primavera a Bologna. Poi a Strasburgo ad ottobre. Venerdì in biblioteca e - infine - ieri mattina nella mia camera. Ho anche visto il film che ne ha tratto Stephen Frears un paio di volte: al cinema e poi su Sky.
La rilettura è per me una pratica abbastanza recente. Di solito la mia lettura è vorace, rapida, tutta intenta a seguire la storia, le pagine scorrono veloci perché c'è sempre un libro da leggere dopo che mi aspetta e che mi mette fretta. E soprattutto c'è la fine da scoprire, allora faccio il conto alla rovescia delle pagine che mi mancano e do una sbirciatina all'ultima pagina, giusto per far capire all'autore che sono io ad avere in pugno la situazione, mica mi frega, mica mi lascia sola lì nel bel mezzo delle pagine senza che io possa sapere come va a finire.
Sì, il mio tempo di lettura è una corsa contro il il tempo della scrittura.
E poi succede che devo rileggere La Fin de Chéri e mi innamoro della rilettura.
Il mio professore di Letteratura Francese diceva che per dire di aver letto un libro, dobbiamo leggerlo almeno tre volte. Mah, mi ero detta io, non penso avrò mai il coraggio di rileggere I fratelli Karamazov o Guerra e Pace. Però, pensavo mentre lo ascoltavo, effettivamente mio fratello ha letto due volte  Il signore degli anelli a undici anni... forse allora non è del tutto assurdo e insensato ciò che a dodici anni mi aveva lasciata basita.
Così, ho riletto Polissena del Porcello di Bianca Pitzorno, libro storico della mia infanzia. Pensavo di essermi messa in pace la coscienza, avevo dimostrato che anche io se voglio sono capace di interrompere la guerra al tempo della scrittura. In seguito e durante questi anni di università mi è capitato di rileggere molti libri più volte, per un esame o per un saggio da scrivere o per una recensione da fare.
Questa rilettura però è stata tutta un'altra storia.
Quando ho letto per la prima volta La Fin de Chéri mi sono detta che era una storia d'amore un po' strana, con pochi personaggi, interessante. Di certo non un capolavoro. La seconda volta ho chiuso il libro pensando che era una storia molto innovativa e da consigliare. La terza che lo stile era molto ricercato e non mi venissero a dire che Colette era la Fabio Volo d'altri tempi. Alla quarta lettura ho pensato che era geniale, con Freud di mezzo, le follie degli anni Venti, le donne che diventano affariste, le tragedie di Racine ribaltate, i dialoghi perfetti. Alla quinta ho scoperto una miriade di personaggi che prima erano rimasti silenziosi, mi sono accorta che ci sono tante scene collettive di pranzi, feste e cene che ad una lettura veloce scompaiono. Che dalla descrizione dei pasti si potrebbe trarre un ricettario raffinato e molto goloso. Ho scoperto che il protagonista vaga per la città, tra incontri e momenti di epifania da far impallidire Joyce e tutti i suoi adulatori.
Allora ho capito perché molti dei miei amici intellettuali quando sanno che faccio la tesi su Chéri storcono il naso. Per arrivare alla bellezza di un testo, bisogna liberarsi della polvere dei luoghi comuni che sul testo si sono accumulati ("ma Colette chi? quella che faceva i romanzetti su Claudine che va a scuola?" "Quella che nei suoi libri parla di sesso e di relazioni lesbiche?" "Ah sì, Chéri.. quel libro sulla storia d'amore con la vecchia" e via dicendo). Ma non basta avere uno sguardo fresco sul testo, alle volte serve anche una guida. Serve discutere sul testo, serve leggerlo insieme ad altri. Ecco svelato il segreto di queste meravigliose riletture: sono state riletture condivise e partecipate. La prima volta l'ho letto in solitudine, assorbita da chissà quali altri pensieri. L'ho chiuso e l'ho riposto  nella mia libreria, non ricordo di averne parlato con qualcuno. La seconda volta l'ho riletto perché mi era capitato di parlarne a pranzo con amici e mi era ritornata la curiosità. La terza perché ho seguito un corso su Colette e il mio geniale professore di Letteratura Comparata l'ha illuminato e arricchito. L'ho letto con gli altri  miei compagni del corso e ne abbiamo parlato in mensa o la sera passeggiando sul lungofiume. E ora lo rileggo in compagnia di un lettore immaginario, con l'intento di sedurlo come io a mia volta sono stata sedotta dalle letture di altri.
Insomma, se siete arrivati alla fine di questo papiro vuol dire che è arrivato il momento di andare in libreria o in biblioteca, di cercare lo scaffale Adelphi e di fare vostro questo piccolo tesoro scritto nel 1926.
E in me si fa più ferma la convinzione che condividere storie, letture, pellicole viste, riletture è la migliore forma di resistenza e il migliore metodo di apprendimento.