venerdì 24 febbraio 2012

Di quando, pur di non studiare, si dà la colpa a tutto il sistema

Lo devo ammettere: quando nel mio lavoro di tesi passo ad esaminare il contesto italiano vengo assalita da una sensazione di scoramento. Proprio non mi piace. La gran parte della critica italiana mi deprime e i romanzi mi sembrano simili, tutti segnati dalla pesante figura dell'inetto, dell'incapace, del personaggio che è un abbozzo di se stesso, che è una maschera. E' colpa del canone che ha tramandato autori che rispondevano a questi criteri o è la creatività degli scrittori degli anni venti ad essere stata in un certo senso monocorde? La seconda ipotesi mi sembra alquanto improbabile. Se a livello formale il romanzo italiano ha saputo fare propria la lezione del romanzo russo ed inglese introducendo tutto sommato importanti novità, è nella scelta dei temi che la noia sembra dominare incontrastata. Ma io non mi rassegno. Non posso credere che il pubblico e la critica amassero romanzi  che rappresentavano tutti la stessa parabola di inadeguatezza alla vita. La tesi sugli anni venti a cui sto lavorando certo non sarà sufficiente a fare luce su esperienze romanzesche differenti e sarò costretta a sciropparmi critica noiosa e ad analizzare inetti ed indifferenti, ma sicuramente dentro di me una convinzione è sempre più forte: a scuola (e nelle università) la letteratura si studia in maniera troppo teorica, per grandi schemi e grandi linee, nell'intento di semplificare ma con il risultato di appiattire.
Per fortuna il contesto europeo tiene alto il morale e incoraggia al proseguimento della ricerca.

O più probabilmente sono io che ho bisogno di una pausa, ma non  me la voglio concedere e quindi è colpa del romanzo italiano e blablabla

:D

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